L’Intervista del Mese: Riccardo Signoretti

StickerRiccardo Signoretti ha quaranta anni, la metà dei quali trascorsi nel fare il giornalista, era questo il suo sogno da bambino?
Dico sempre che sono fortunato, perché faccio da grande quello che volevo fare da piccolo. Non ho mai sognato di diventare astronauta o veterinario: io volevo lavorare nella comunicazione.

Inizia la sua carriera appena sedicenne, tra i microfoni di una radio. Passa quindi alla cronaca locale, in quel di Pesaro, erano i primi anni novanta. Quando capisce che il solo scrivere non le bastava e che aveva progetti più ambiziosi?
RICCARDO SIGNORETTI
A dire il vero a 3 anni mi divertivo con il proiettore e i filmini super8 di cartoni animati, ero anche capace di rimontare la pellicola con lo scotch, quando si spezzava. A 7 mi sono fatto costruire da mio padre una piccola stazione radio e trasmettevo musica e chiacchiere nel quartiere. Poi c’è stato il periodo dei videoregistratori e delle videocamere. Negli anni del liceo ho preso contatti con le radio locali: ho cominciato a lavorare in regia a Radio Incontro, stazione della mia città, Pesaro. Poi sono passato dall’altra parte del vetro, dal mixer allo studio, per la conduzione dei radiogiornali. Con la videocamera realizzavo servizi che spedivo a una tv locale di Urbino, Tele 2000. Nel frattempo raccoglievo pubblicità per la radio: 30 per cento di provvigioni anticipate, così a 17 anni guadagnavo anche 2 milioni al mese. Avevo trovato lo sponsor anche per la rubrica delle ricette e, per convincere la scuola guida più nota della città a firmare un contratto, mi ero inventato un quiz, “Semaforo verde”, con le domande prese dal libro dell’autoscuola. Così l’anno dopo mi sono comprato la macchina. Nel frattempo ho cominciato a collaborare con uno dei quotidiani della città, “La Gazzetta di Pesaro”, e lì ho capito che la parte preferita del lavoro era quella della cucina redazionale: correggere i pezzi dei collaboratori e titolarli. Ogni articolo, anche il più noioso, va confezionato come se fosse unico: il titolo deve suonare come uno slogan, attirare l’attenzione. A 23 anni sono entrato all’IFG, l’Istituto per la formazione al giornalismo di Urbino, e due anni dopo ero giornalista professionista. Un paio di stage a Milano e sono arrivati i primi contratti di assunzione. Più che scrivere un pezzo, a me piace avere l’idea, capire il taglio che voglio dare a un servizio, commissionarlo a chi materialmente lo fa e poi metterlo in pagina con il titolo che avevo in testa, a meno che nel frattempo non ne venga fuori uno migliore. La tecnologia, i computer, dagli anni 90 hanno cambiato profondamente le redazioni: scrittura all’esterno e desk all’interno. Una figura come la mia era molto richiesta, non sono mai rimasto con le mani in mano.

Vero, Vero Tv, Top, Vera, Stop, Di Tutto: il suo nome è accostato a riviste di primo livello, qual è il filo conduttore del suo percorso lavorativo?
Il filo conduttore è il grande rispetto per chi ogni settimana va in edicola e sceglie il mio giornale. Non dimentico mai che una rivista è un prodotto con il suo target. E a quello bisogna rivolgersi. Perciò niente foto “sconvenienti” sui settimanali familiari, destinati a finire sul tavolino del salotto, dove possono sfogliarli anche i bambini. Malizia e registro ironico, invece, nei giornali più rosa. Mi sono comunque occupato anche di cucina, salute, arredamento: lo stesso metodo si può applicare a ogni giornale. Dare al lettore quello che si aspetta e sorprenderlo con qualcosa di più.

Da pochi mesi è alla guida di “Nuovo”, l’ennesima sfida intrapresa da Urbano Cairo Editore. E’ stato definito “Un settimanale per i giovani, per la famiglia, per chiunque”, cosa l’ha spinta ad accettare questo ambizioso ruolo?
E’ stato come giocare nel Chievo, una squadra capace di stupire, e sentirsi chiamare dal Milan o dalla Juve, per non dire… dal Toro! Urbano Cairo è l’editore numero 1 in Italia, la sua azienda cresce e assume mentre gli altri perdono quote di mercato e chiedono lo stato di crisi. Lavorare con lui significa essere nella serie A dell’editoria e puntare allo scudetto. La prima volta che ci siamo incontrati, era il 29 settembre del 2011, ci è bastato poco per capirci. Cairo è un uomo pragmatico, non si perde in parole inutili. Lui mi ha spiegato che giornale aveva in mente. Io gli ho chiesto le risorse per farlo. A quanto pare è andata bene, meglio di quanto pensassimo.

Qual è il segreto per essere un buon direttore?
Non lo so. Io credo di somigliare molto ai lettori dei miei giornali. Pubblico le storie che mi colpiscono, dalla cronaca nera alla rosa, fino alle inchieste e alla politica. Bisogna colpire il cuore, regalare emozioni. Oppure andare alla pancia, far riflettere, cavalcare le polemiche. E avere sempre un sottofondo positivo: c’è la crisi? Facciamo un servizio su come risparmiare mille euro l’anno con la spesa intelligente. Cerchi lavoro? Ecco le dieci figure più richieste, o le storie di chi ha saputo reinventarsi e ricominciare.

Guardando a ritroso nel tempo, com’è cambiato il modo di fare giornalismo? Si va ancora in cerca di notizie oppure sono queste ad arrivare direttamente in redazione attraverso i vari canali, in primis telematici?
La tecnologia, che pure ha dato un grosso aiuto al mestiere, presenta un’altra faccia alla quale bisogna prestare attenzione: la velocità con cui si possono reperire informazioni nasconde molte trappole. I colleghi più giovani smanettano su Internet ma non capiscono se le notizie che trovano sono verificate, se sono attuali. Internet è un mezzo inaffidabile, bisogna saperlo usare, filtrare. A volte trovo errori marchiani in un servizio e la risposta del redattore è «L’ho trovato su Google». Drammatico. I ragazzi che vogliono fare questo mestiere hanno bisogno di un “tutor”, qualcuno che insegni loro il mestiere. Troppi autodidatti in giro, gente che lavora da casa e ha come fonte il computer. C’è un copia-incolla che riempie i siti di sciocchezze. Per fortuna nel settore dei settimanali come il mio le riviste restano la fonte d’informazione. Internet ci copia, spesso male. Le notizie bisogna cercarle, è un lavoro fatto di rapporti. Ma attenzione: io non accetto inviti alle feste delle celebrità, non salgo sulle barche dei nababbi. Questo mondo lo osservo da cronista e cerco di raccontarlo. Non ho alcun desiderio di farne parte: il rischio sarebbe diventare un megafono di quei personaggi. Lascio ad altri questo ruolo.

Tra gli inserzionisti del suo giornale figura anche il brand Boccadamo. La maison di moda realizza le sue campagne pubblicitarie al fine di colpire un lettorato come quello di “Nuovo”. Le capita di immaginare il lavoro che c’è dietro una pagina pubblicitaria, e la affascina tutto ciò?
La pubblicità è parte del prodotto. Le lettrici si soffermano anche su quelle pagine, perciò più lavoro c’è dietro, più io sono contento. Purtroppo la crisi ha abbassato il livello della creatività: si vedono pagine “bulgare”, realizzate alla buona. Una pagina “glam” come quella di Boccadamo fa solo piacere. Tra l’altro il brand ha capito subito il valore del Settimanale Nuovo, che parla a una lettrice abbastanza giovane, con buona capacità di spesa e sempre attenta alla novità, che è disposta a provare. Troppe aziende buttano soldi su testate che secondo loro “fanno immagine” e hanno un costo a pagina pazzesco. Peccato che non facciano numeri in edicola. La pubblicità deve servire a vendere, non ad autocompiacersi.

Qual è il portafortuna che non può mancare nell’ufficio di Riccardo Signoretti?
A dire il vero non sono scaramantico. Però mi dà fastidio l’invidia. Sembra che se avere successo sia una colpa. Io ammiro, non invidio. Anche perché l’invidia logora chi ce l’ha. In ogni caso ho un bel corno rosso comprato a Napoli nel primo cassetto della scrivania. Male che vada, non serve a nulla.

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